Alberto Brenta su Giornale di Brescia - 3 novembre 2005

CESARE LIEVI E CLAUDIO RISE’ HANNO DISCUSSO CON PAOLO FERLIGA DEL SUO LIBRO «IL SEGNO DEL PADRE»

«Ma io ho dentro ciò che supera ogni scena». Prende avvio dal discorso con cui Amleto spiega il vuoto insanabile della perdita paterna il libro «Il segno del padre nel destino dei figli e della comunità» di Paolo Ferliga, psicologo analista junghiano e insegnante di filosofia al liceo Arnaldo. Trae spunto dalle stesse parole pronunciate dall’eroe tragico shakespeariano il dialogo a tre voci intorno al volume, ieri al Teatro Sociale, a cui hanno partecipato, oltre all’autore, il direttore del Ctb, Cesare Lievi, e lo psicanalista e docente di Sociologia dei processi culturali all’Università dell’Insubria, Claudio Risé. Intervento a tre voci, ma sarebbe forse meglio contarne quattro, vista la centralità data nell’incontro al teatro, nelle cui opere, sottolinea Lievi, «sovente si affronta la tesi del libro: ossia l’assenza della figura del padre». Nel suo testo, Ferliga parla della progressiva evanescenza, in epoca moderna, dell’immagine paterna e del conseguente formarsi di un vuoto spesso incolmabile, nei figli e nella vita della comunità. Per un armonioso sviluppo psicologico di un bambino è infatti indispensabile la presenza fisica e affettiva di entrambi i genitori e «l’assenza del padre - il suo essere "nella polvere", scrive Shakespeare, - non può che generare sofferenza. Fortunatamente - continua l’autore - la figura del padre è sapientemente conservata dall’inconscio collettivo ed è rintracciabile nei miti, nei sogni, nei testi sacri, nella poesia» e quindi anche nel teatro. Sono molti, infatti, gli orfani di padre, dalla storia del teatro, citati ieri. Uno su tutti, Parsifal, di cui Risé parla come di «figlio senza padre, tenuto dalla madre lontano dagli uomini per sottrarlo al tragico destino del genitore. Quando però il mondo maschile irrompe nella vita del giovane, il distacco dalla donna avviene in tutta la sua drammaticità e irruenza. Se il padre è assente, il figlio non cresce, per lui non è possibile nessuna trasformazione». A uguale conclusione giunge «La casa di Bernarda Alba», proprio da ieri in scena a Brescia, in cui, spiega il regista Lievi, «una madre cerca, senza riuscirci, di farsi padre, instaurando un rapporto verticale con le figlie. Sfortunatamente per le giovani, la mancanza di una figura maschile avrà esiti drammatici». Citando «Fotografia di una stanza» dello stesso Lievi, Ferliga chiarisce quindi come «per un padre non ci sia cosa peggiore che abbandonare un figlio o essere lasciato da questo, e come nella volontà di essere genitore si esprima un desiderio non solo biologico, ma anche sociale, consistente nell’assumersi la responsabilità dei giovani». Nel corso dell’incontro, quello tra teatro e figura paterna è un continuo intrecciarsi, tanto che Lievi spiega che «per un attore il testo è una sorta di padre padrone. L’artista di fronte a tale dominio deve ribellarsi, non disconoscendo o distruggendo il testo, ma interpretandolo e rinnovandolo. Proprio come dovrebbe accadere tra un figlio e il genitore». «Il riconoscimento del padre, pur nel dissenso, - continua infatti Ferliga - è essenziale affinché un giovane abbia coscienza delle proprie radici. Negarne la figura vuol dire credersi privi di origini e quindi di limiti e regole». E, come ha chiosato Risé, «una società senza padri è una società senza figli».

Alberto Brenta